giovedì 21 luglio 2016

Gli eroi solitari del nostro tempo









Il camion del terrore

Terrorismo, disperazione, suicidio
        di Franco Bifo Berardi
Si stanno intensificando gli episodi di suicidio assassino: una persona (generalmente un giovane maschio) uccide quante più persone gli capitano a tiro prima di essere ucciso da un agente della sicurezza, un soldato o un poliziotto. L’ultimo, in ordine di tempo, è un maschio 31enne franco-tunisino, che ha scaraventato un camion lanciato ad alta velocità sull’affollato lungomare di Nizza uccidendo più di 84 persone. Si tratta di terrorismo, ci dicono i giornali che giorno dopo giorno documentano episodi di guerra civile globale nell’area euro-mediterranea e in vaste zone dell’Africa e dell’Asia oppone l’esercito islamista all’occidente.
In altre zone, come il Messico e il Brasile, si scatena l’esercito narcotrafficante contro la popolazione civile, mentre negli Stati Uniti d’America mobilita un esercito immenso di squilibrati mentali forniti di armi micidiali e in libera vendita dovunque, motivando, in questo modo, i poliziotti ad uccidere giovani afro-americani. Come nel caso recente di Dallas, quando un afro-americano, reduce dalla guerra afghana, sparava su poliziotti preferibilmente bianchi. Si tratta di terrore, questo è certo. Ma non sono sicuro che la spiegazione ideologica o religiosa sia quella che meglio ci spiega le ragioni di questa violenza che ormai è divenuta l’orrenda norma della vita quotidiana nella società globalizzata.
Libia, ISIS conquista aeroporto a Sirte
Alla fine di giugno 2016 un ragazzo palestinese di 17 anni, Muhammad Nasser Tarayrah, si è introdotto nottetempo in una casa di Kyriat Arba (letteralmente la "Città dei quattro") un insediamento israeliano alla periferia di Ebron, e ha ucciso a coltellate una ragazzina ebrea di 13 anni che stava dormendo nel suo letto. Pochi istanti dopo un soldato israeliano ha ucciso il giovane assassino. Niente di particolarmente sorprendente o di nuovo, anche se non è possibile restare indifferenti
L'insediamento di Kiryat Arba a Gerusalemme
Gli aironi
solitari
Kyriat Arba è un insediamento di coloni israeliani che la legge internazionale considera illegale, l’aggressione israeliana è ininterrotta da decenni per cui è del tutto comprensibile che i palestinesi ripetutamente aggrediscano i coloni che hanno occupato le loro case e distrutto le loro vite. Ma l’azione dell’adolescente Tarayrah ha un carattere particolare per l’età dell’assassino e della vittima, e perché si inserisce in una successione impressionante di azioni che possiamo definire terroristiche solo se estendiamo enormemente il senso di questa espressione. Palestinesi di ogni età ripetono un gesto che appare inspiegabile secondo ogni logica militare o politica: escono dalle loro miserabili abitazioni con un coltello da cucina e si avventano contro il primo cittadino israeliano che capita, tentando, per lo più senza successo, di ammazzarlo.
L'“Intifada
dei coltelli”
Questi guerriglieri armati di coltello ottengono invece quasi sempre un altro risultato, quello di essere uccisi dai soldati israeliani, che sono armati fino ai denti. Si tratta di un’insurrezione, come suggerirebbe il nome “Intifada dei coltelli” che i giornali hanno dato a questa esplosione priva di senso militare e politico? L’insurrezione è un atto collettivo, un processo fondato sulla condivisione quotidiana di lungo periodo, e si prefigge generalmente di rovesciare un regime. Nel caso dell’Intifada dei coltelli si tratta di aironi individuali, solitari e per di più è evidente che i mezzi non sono adeguati per ottenere il fine.

Come riconoscrete sicuramente, si tratta del massacro in Marikana in sud Africa


"La morte è un diritto,
ed esigo questo diritto"
Come spiegare allora questi atti? A me pare chiarissimo che i giovani palestinesi, stremati dalla miseria, dall’umiliazione, dalla sistematica violenza dello stato fascista e razzista di Israele si stanno suicidando, stanno commettendo quello che in inglese si chiama suicide by cop. Il giovanissimo Tarayrah, per parte sua, aveva spiegato il suo gesto in modo che più chiaro non si può, scrivendo sul suo profilo Facebook le seguenti parole: “Death is a right, and I demand this right”.
L'Is in azione ultimativa
    Il suicidio come 
   fuga dall’inferno
Occorrevano parole più chiare per darci la possibilità di comprendere di che stoffa sia fatto il cosiddetto terrorismo che sta lacerando il tessuto della società contemporanea? Quella stoffa è la sofferenza di una parte crescente dell’umanità contemporanea, soprattutto dei giovani, non solamente arabi o islamici. Il suicidio come linea di fuga dall’inferno dell’umiliazione colonialista, dall’inferno della miseria metropolitana, dall’inferno della precarietà e dell’umiliazione.
Secondo World Health Organisation negli ultimi quaranta anni il tasso di suicidio è aumentato nel mondo del 60% (ripeto per chi non avesse ben capito: sessanta per cento). Secondo alcune fonti che ho avuto modo di consultare, questo dato di per sé impressionante non rende a pieno la realtà, perché in molti paesi del mondo (tra cui l’Italia) i Ministeri dell’Interno danno indicazione ai medici di non dichiarare che una persona si è volontariamente data la morte se questo non è provato da una dichiarazione esplicita.

HEROES, suicidio e omicidi di massa
Impressionato da questo fenomeno, qualche anno fa gli ho dedicato un libro nel quale avanzo l’ipotesi che non si tratta di una contingenza casuale, ma di una conseguenza del tutto comprensibile delle condizioni di solitudine, umiliazione, miseria psichica e materiale e della percezione sempre più netta che la solidarietà tra oppressi si è dissolta per effetto della competizione e della precarietà e dunque non c’è più speranza di una rivolta collettiva, di una liberazione sociale.
C’è un momento in cui l’ipocrisia e le buone maniere vanno messe da parte. E un liberale deve dire le cose come stanno, pena essere accusato un domani di essere stato imbelle davanti ai mostri avanzanti. Per quieto vivere, pensando di salvaguardare la propria tranquillità borghese. Deve dirlo senza temere di urtare le “anime belle”, che poi spesso tanto belle non sono e grondano ipocrisia.
Ciò che bisogna dire oggi, chiaro e forte, senza ambiguità, è che l’Iislamismo è il nuovo totalitarismo e che come tale va combattuto prima che sia troppo tardi. Il totalitarismo è, come si sa, non un avversario ma il nemico assoluto della società liberale. E lo è sia perché la sua visione della vita, essendo appunto “totale”, non tollera quella distinzione fra le sfere di attività umane, in primo luogo fra la politica e la religione, che è alla base della nostra civiltà; sia perché è animato da un sentimento di “purezza” che considera sacrilega la possibilità stessa che possa esistere una società pluralistica.

Il marketing dell’apocalisse
Il titolo del libro è "HEROES, Suicidio e omicidi di massa" edito dalla Baldini e Castoldi. Ma cosa è accaduto di nuovo negli ultimi quaranta anni che possa spiegare un incremento così drammatico del suicidio? Cosa è cambiato nell’ambiente in cui i giovani si formano? Due risposte mi vengono alla mente. La prima si può formulare in questi termini: quaranta anni fa venne avviato un esperimento sociale che ha rapidamente cambiato le relazioni fra gli esseri umani, disgregando profondamente la comunità sociale, mettendo gli individui in una condizione di isolamento, di precarietà e competizione continua.

Questo libro è dedicato alla tendenza che domina l’età del capitalismo finanziario: il suicidio. Non si tratta soltanto dell’inquietante aumento del tasso di suicidio individuale (60% di aumento negli ultimi 40 anni), ma del fatto che l’umanità intera sembra avere scelto di suicidarsi. Forse la decisione l’hanno presa in pochi, ma tutti siamo costretti a prenderne atto. O forse non l’ha proprio deciso nessuno, ma tutti siamo in trappola in questa carlinga che vola nella notte della follia finanziaria, mentre non sappiamo come aprire la porta della cabina di pilotaggio. Tanto dentro il pilota non c’è.
L’ha detto varie volte Mario Draghi, che passa per un signore molto assennato. Non importa per chi votate alle elezioni, ha detto Draghi. Non importa quale governo abbiano scelto i greci, non importa che voi siate d’accordo oppure no. La politica economica europea va avanti con il pilota automatico. 
E dove ci porta il pilota automatico dovremmo averlo capito. Se ci fosse stato inchiostro all’Angleterre non avreste avuto bisogno di tagliarvi le vene. 
     (Vladimir Majakóvskij a Sergej Esenin) 
L’accattivante
Neo-liberismo
La persona che lo impose per prima vinse le elezioni politiche inglesi dicendo che “la società non esiste, esistono solo individui famiglie imprese in competizione tra loro”. Il thatcherismo è diventato poi un dogma indiscutibile per tutti coloro che vogliono concorrere al potere politico.


La seconda risposta che mi viene alla mente riguarda la mutazione tecnica e comunicativa: negli ultimi decenni la comunicazione inter-umana è stata progressivamente trasformata dalla diffusione di macchine connesse la cui funzione essenziale è quella di permettere lo scambio di informazioni a distanza e di rendere possibile lo svolgimento di complesse operazioni produttive e comunicative senza bisogno che i corpi si incontrino nello spazio.
Questa innovazione ha eroso nel tempo la capacità degli esseri umani di sentire affettivamente la presenza dell’altro, mentre la prima ha inoculato nella mente di ogni individuo la convinzione che la vita ha valore soltanto per i vincenti, sottoponendo ogni individuo ad uno stress competitivo costante. Solo alcuni vincono, mentre la grande maggioranza dei partecipanti al gioco vive condizioni di frustrazione, umiliazione e miseria crescente. Non è sorprendente allora e quindi, che i soggetti socialmente più deboli, si trovino sempre più spesso a desiderare la morte. Il suicidio appare come una liberazione e insieme una vendetta, un’aggressione mortifera contro i responsabili di un dolore le cui cause sono difficili da individuare.






 




















































venerdì 6 maggio 2016

Emergenza cultura: basta oligarchie

EMERGENZA CULTURA:
 di Giuseppe Allegri       BASTA OLIGARCHIE, BARONIE E                                                                                      IMPRENDITORI DI SE STESSI        
Emergenza cultura: si crede che bastino i fondi pubblici. Il bisogno di una rivoluzione contro il corporativismo e il mito del creativo in carriera. L'alternativa allo Stato non è il mercato, o viceversa. 
Oggi più che mai serve riscoprire  invenzione sociale, economica e istituzionale.
Call center e non solo
In questi giorni è emergenza cultura, per la manifestazione del 7 maggio, ma è praticamente un'emergenza permanente. Era di oltre dieci anni fa, inverno 2004, la lotta francese alla “guerra contro le intelligenze e la cultura”, che ebbe una vasta eco in tutta Europa e attraversò anche i precari movimenti dell'Onda studentesca e delle università italiane, le mobilitazione di precari-e delle grandi catene di distribuzione, come dei servizi alle persone (call center e non solo), per arrivare alle intermittenti dello spettacolo e del lavoro culturale che nei primi anni Dieci si ripresero teatri, spazi pubblici, sale cinematografiche in dismissione. Era la stagione delle mobilitazioni europee per affermare una nuova idea di società e di attività operose, che permettesse di sfuggire ai ricatti del lavoro povero, a partire dalla valorizzazione di conoscenze e saperi messi in condivisione.
Per un nuovo Welfare
Perché nel lungo ventennio che vorremmo lasciarci alle spalle il nostro Paese ha conosciuto un'esponenziale frammentazione contrattuale del lavoro, in assenza di qualsiasi dignitosa possibilità di scelta. E paradigmatico è il peso sopportato dalle donne nel mercato del lavoro, aggravato dalla tradizionale impostazione “familista” e “paternalista” del nostro sistema di Welfare che ancora non conosce garanzie universali, a partire da una qualche forma di reddito di base. Nello stesso ventennio è stata scatenata una scientifica e bipartisan guerra alle intelligenze indipendenti, letteralmente disprezzando il lavoro della conoscenza, proprio mentre capitale e società dello spettacolo mettevano al lavoro le qualità relazionali, cognitive, comunicative delle persone sempre più spesso costrette al lavoro gratuito, senza alcuna garanzia: in un ospedale o in una biblioteca, come nella redazione di un giornale.
Contro il corporativismo
Dinnanzi a questo scenario di vero e proprio saccheggio del lavoro culturale e di relazione appare del tutto inutile, quando non strategicamente pericoloso, rinserrare le fila del corporativismo: che sia quello autoreferenziale e bizantino dell'Accademia, quello professionale dell'immaginario imprenditore di se stesso, o quello del piccolo orticello sindacale, sempre più impoverito e insicuro. E non basta rivendicare maggiori investimenti pubblici, se questi saranno amministrati dalle solite oligarchie, baronìe e congreghe che hanno contribuito all'attuale situazione. Come non basta difendere il carattere pubblico dell'istruzione, ma occorre affermare l'urgenza di una scuola pubblica di qualità, come hanno sempre fatto i movimenti montessoriani.
 Sperimentazioni montessoriane dimenticate
Per questo varrebbe la pena tornare con la mente a cento anni fa, quando una sorellanza di vedute tra le intuizioni di Maria Montessori e il sostegno di Virginia Mieli, moglie di Ernesto Nathan, allora Sindaco di Roma (1907-1913), generò quel grande spazio di sperimentazione innovativa dell'istruzione pubblica per i bimbi, partendo dal quartiere popolare di San Lorenzo, per poi diffondersi in tutto il mondo. 
Economy sociale 
E oggi quasi tornando a dimenticare tutto questo, qui a Roma, in Italia, quando misere classi dirigenti di ogni colore e tipo si candidano al governo cittadino senza neanche ricordare e valorizzare questa irriducibile tradizione di saperi vivi. E viene sempre da evocare il Maestro Remo Remotti di Mamma Roma Addio.
Come è capitato di sostenere già in passato è di nuovo il momento di inventarsi le forme e le pratiche per innescare un processo ricostituente, con la pretesa di trasformare città, vite, istituzioni a partire da un atteggiamento pragmatico di invenzione sociale, economica e istituzionale, per una nuova idea di cultura e cittadinanza sociale, che sappia garantire indipendenza individuale e solidarietà collettiva.
Processi ricostituenti
Dentro le grandi trasformazioni dell'economia collaborativa è invece il momento di creare spazi in cui sperimentare incontri produttivi tra nuove imprese sociali, indipendenti lavoratori autonomi di seconda e terza generazione e tutte le diverse forme di lavori della conoscenza, che oramai riguardano ampi segmenti di tutto il mondo del lavoro un tempo ritenuto tradizionale, dove l'innovazione tecnologica impone la formazione, condivisione e diffusione di vecchi e nuovi saperi.
La cassetta degli attrezzi 
Si tratta di investire risorse pubbliche e private per condividere una nuova cassetta degli attrezzi concettuali e pragmatici per ribaltare la subordinazione, tanto al comando del lavoro, oramai quasi gratuito, a prestazione mai retribuita, quanto alle retoriche tecnocratiche e falsamente meritocratiche. Sarà un'alleanza necessariamente affollata, intergenerazionale, plurale e molteplice. Ci si riconoscerà nella comune insoddisfazione rispetto agli immaginari esistenti: quelli dell'impoverimento culturale generalizzato, dell'intollerante qualunquismo parolaio, quindi di una malinconica politica sempre più autoreferenziale, dentro i suoi cliché ideologici. 

sabato 23 aprile 2016

Fuga dei cervelli e lavoro gratuito

QUINTO STATO

Fuga dei cervelli e lavoro gratuito:

come raccontare (bene) la ricerca


di Roberto Ciccarelli
Fuga dei cervelli e lavoro gratuito: come sopravvivere alla narrazione dominante sulla ricerca in Italia
Ci sono due modi per raccontare la ricerca. Il primo è quello della fuga dei cervelli. Il secondo è il lavoro gratuito e la disoccupazione dei 60 mila ricercatori precari che sono sia accademici che lavoratori parasubordinati e rientrano nel più ampio mondo del lavoro indipendente.
Fuga dei cervelli
La “fuga dei cervelli” obbedisce alla desolante, e fondamentalmente ipocrita, formula in cui si riflette la disillusione e la rassegnazione delle classi dirigenti.

"L’invenzione di questa espressione ha accompagnato la liquidazione dell’università italiana e le lamentazioni funebri sull’eccellenza dei ricercatori, giovani e meno giovani, costretti ad esportare il loro «capitale umano» all’estero, facendo perdere cifre consistenti alla madre patria. Il "cervello" universitario sarebbe dunque l’unico qualificato a fuggire, mentre la maggioranza – soprattutto quella non universitaria – che resta nel paese della vergogna non è meritevole di un riconoscimento postumo, prima dell’apocalisse. Il successo di questo trucco è presto spiegato: esso rappresenta il rovescio del ritornello nazionale sulla precarietà, immancabilmente rappresentata dai sindacati, dai governi e dalle cattedre universitarie come dalle inchieste giornalistiche televisive di maggior successo da dieci anni a questa parte, come una forma di vita povera e sfortunata che, per diventare meno povera e un po’ più "civile", può solo mettersi alla catena di montaggio; sedere nello scantinato di un ministero, in regione, comune, provincia, comunità montana, o in un qualsiasi ente pubblico. Fare il servo conviene, soprattutto quando ministri pensionati, abituati alla vita nobile del parastato, consigliano di smettere di studiare e riscoprire il fascino onorevole di un lavoro da imbianchino. Competenze, ingegno, volontà e disponibilità servono a sposare un miliardario”. Questo scrivevamo in un libro intitolato, non casualmente, “La furia dei cervelli”.
   Lavoro gratuito
Esiste un altro modo per raccontare questa situazione: il lavoro gratuito o la disoccupazione a cui sono costretti i ricercatori precari. Quello della ricerca è un lavoro della conoscenza, inquadrato previdenzialmente nella gestione separata dell’Inps. E’ una forma di lavoro di collaborazione, anche perché nella maggior parte dei casi questi ricercatori lavorano su un “progetto” (di ricerca). A differenza di altri collaboratori, i ricercatori precari non ricevono il sussidio di disoccupazione Dis-Coll. Sono considerati “speciali”, non lavoratori, ma studenti in formazione.


L’università è
come l’Expo

Questo significa: quando perdono lo stipendio, devono continuare a lavorare gratis sperando in una nuova borsa. A tutto il resto ci pensano papà e mamma. Il ricercatore è vittima della sua "specialità" e viene considerato un’appendice del suo progetto di ricerca. L’università è come l’Expo: si lavora da volontari, nella speranza di percepire un reddito domani. O magari un concorso. Il lavoro, più precisamente, è accumulare visibilità agli occhi del dominus universitario. L’università si conferma al centro dei processi sociali dominanti e si inserisce nella tendenza del lavoro gratuito.

La fuga dei cervelli è il racconto dei dominanti sulla condizione dei ricercatori italiani, in particolare di quelli che legittimamente trovano una o più occasioni all’estero, si sottraggono al destino riservatogli nel loro paese e diventano professionisti internazionali della ricerca.
Il secondo è il racconto della materialità del lavoro oggi. La richiesta di estensione delle tutele di base, come il sussidio di disoccupazione, avanzato da ricercatori studenti e sindacati, squarcia un velo: anche i precari dell’università sono lavoratori e non corpo separato della società, o baronetti in miniatura che campano dei privilegi di ceto o con la rendita familiare.
Il problema della ricerca in Italia: la rimozione delle condizioni materiali del lavoro della ricerca e l’affermazione dell’unica realtà della fuga dei cervelli. La prima è il racconto, dal basso e in prima persona, di una condizione realmente vissuta e generale. La seconda è il racconto dall’alto che giustifica la realtà e non la spiega. Ed è fatta dai governi, tra gli altri.

La protesta dei ricercatori precari-strikers
La protesta dei ricercatori precari-strikers

Le solite sparate
del solito Poletti

Ecco come funziona il dispositivo discorsivo nel caso di Renzi. Ieri il presidente del Consiglio ha detto che non sarà lui a dire ai ricercatori italiani di restare in Italia. "Siamo pieni di presidenti del Consiglio che in passato hanno detto non andate" ha detto ieri l’inquilino di Palazzo Chigi all’istituto nazionale di fisica nucleare del Gran Sasso.

"Se pensate che sia meglio, fatelo. Ma noi faremo dei nostri istituti i luoghi al top del livello mondiale – ha proseguito – faremo dell’Italia un centro capace di attrarre ricercatori italiani e di tutto il mondo". E poi, come rivolgendosi a diplomati preoccupati di lasciare casa per andare all’estero, ha detto: "è giusto fare esperienza all'estero, non bisogna continuare ad avere paura del mondo senza frontiere ma far sì che i nostri istituti siano all’avanguardia".


Renzi e la fuga dei cervelli
Il messaggio ai ricercatori non è stato dei più felici: comunica nervosismo e un senso di rivalsa contro le recenti polemiche scatenate dalla volontà del ministro dell’università Giannini di appropriarsi del merito di una super-borsa dello European Research Council (Erc) da due milioni di euro vinta dalla ricercatrice italiana, la linguista Roberta D’Alessandro… in Olanda.
Erroneamente inquadrata nella retorica vittimistica della «fuga dei cervelli», lo scontro Giannini-D’Alessandro è avvenuto sulla mancanza di politiche della ricerca in Italia. La ricercatrice ha precisato di non fuggire da nulla: ha fatto un dottorato all’estero e lì continua a fare ricerca, indipendentemente dal passaporto. In Italia il problema non sono solo i concorsi pilotati o le baronie, ma l’inesistente attrattività dei ricercatori stranieri, senza contare che sui 30 vincitori italiani dell’Erc, solo 13 si fermeranno in Italia per realizzarlo. E, al termine, non è detto che tutti continueranno a lavorare nel nostro paese.
A questo si aggiungano i tagli al fondo degli atenei da un miliardo, la miseria di 92 milioni di euro destinati alla ricerca di base del Prin per tre anni o il blocco degli stipendi da cinque per capire le ragioni per cui si lascia una nave che affonda e non si vuole annegare da precari. La rimozione di questa realtà ieri ha ravvivato le critiche online della comunità accademica che intende astenersi dalla valutazione della qualità della ricerca (VqR).

La protesta #ricercaprecaria
La protesta #ricercaprecaria


Cervelli in vetrina


Il problema del presidente del Consiglio è l’immagine internazionale del paese. "C’è un racconto per il quale l’Italia è soltanto crisi, con grandi elogi per chi va all’estero visto che in Italia non ci sono Istituti all’altezza – ha detto – Io dico che è giusto andare all’estero, ma è molto manicheo dire che all’estero tutto va bene e in Italia no. Bisogna sfatare la leggenda dei cervelli all’estero – ha rilanciato da Roma il ministro dell’università Giannini Ci sono difficoltà di attrattività del sistema e su questo stiamo lavorando".
Resta da capire che cosa il governo stia facendo per la ricerca, oltre ai 60 milioni promessi. Ieri Giannini ha rilanciato il "piano nazionale per la ricerca": 2,5 miliardi di fondi nazionali e dieci fino al 2020. Si direbbe, tutto bene. In realtà le cose non sono messe benissimo, come si cerca di far capire. Annunciato un anno fa, il PnR è una scommessa che punta a prendere 8,8 miliardi, il resto va conquistato con i progetti sui quali l’Italia ha dato pessima prova di sé, quindi la speranza rasenta lo zero. Questi soldi andranno alle aree Agrifood, Aerospazio, Design Creatività, Made in Italy, Chimica Verde non ricerca di base, e tanto meno umanistica.
All’università, briciole: solo un bando per 863 ricercatori, mentre dal 2008 è stato perso un quinto dei docenti di tutte le fasce e la ripartizione delle risorse residue penalizza gli atenei del Sud. Se la narrativa sulla "fuga dei cervelli" è vagamente nazionalista, questo è un modo per alimentarla, aggravando le disparità tra atenei e il loro sotto-finanziamento. Il "top" è lontano e non è per tutti.