QUINTO STATO
Fuga dei cervelli e lavoro gratuito:
come raccontare (bene) la ricerca
di Roberto Ciccarelli
Fuga dei cervelli e lavoro gratuito: come sopravvivere alla narrazione dominante sulla ricerca in Italia
Ci sono due modi per raccontare la ricerca. Il primo è
quello della fuga dei cervelli. Il secondo è il lavoro gratuito e la
disoccupazione dei 60 mila ricercatori precari che sono sia accademici che
lavoratori parasubordinati e rientrano nel più ampio mondo del lavoro
indipendente.
Fuga dei cervelli
La “fuga dei cervelli” obbedisce alla desolante, e fondamentalmente ipocrita, formula in cui si riflette la disillusione e la rassegnazione delle classi dirigenti.
"L’invenzione di questa espressione ha accompagnato la liquidazione dell’università italiana e le lamentazioni funebri sull’eccellenza dei ricercatori, giovani e meno giovani, costretti ad esportare il loro «capitale umano» all’estero, facendo perdere cifre consistenti alla madre patria. Il "cervello" universitario sarebbe dunque l’unico qualificato a fuggire, mentre la maggioranza – soprattutto quella non universitaria – che resta nel paese della vergogna non è meritevole di un riconoscimento postumo, prima dell’apocalisse. Il successo di questo trucco è presto spiegato: esso rappresenta il rovescio del ritornello nazionale sulla precarietà, immancabilmente rappresentata dai sindacati, dai governi e dalle cattedre universitarie come dalle inchieste giornalistiche televisive di maggior successo da dieci anni a questa parte, come una forma di vita povera e sfortunata che, per diventare meno povera e un po’ più "civile", può solo mettersi alla catena di montaggio; sedere nello scantinato di un ministero, in regione, comune, provincia, comunità montana, o in un qualsiasi ente pubblico. Fare il servo conviene, soprattutto quando ministri pensionati, abituati alla vita nobile del parastato, consigliano di smettere di studiare e riscoprire il fascino onorevole di un lavoro da imbianchino. Competenze, ingegno, volontà e disponibilità servono a sposare un miliardario”. Questo scrivevamo in un libro intitolato, non casualmente, “La furia dei cervelli”.
Lavoro gratuito
Esiste un altro
modo per raccontare questa situazione: il lavoro gratuito o la disoccupazione a
cui sono costretti i ricercatori precari. Quello della ricerca è un lavoro
della conoscenza, inquadrato previdenzialmente nella gestione separata
dell’Inps. E’ una forma di lavoro di collaborazione, anche perché nella maggior
parte dei casi questi ricercatori lavorano su un “progetto” (di ricerca). A
differenza di altri collaboratori, i ricercatori precari non ricevono il
sussidio di disoccupazione Dis-Coll. Sono considerati “speciali”, non lavoratori,
ma studenti in formazione.
L’università
è
come l’Expo
Questo significa: quando perdono lo stipendio, devono continuare a lavorare gratis sperando in una nuova borsa. A tutto il resto ci pensano papà e mamma. Il ricercatore è vittima della sua "specialità" e viene considerato un’appendice del suo progetto di ricerca. L’università è come l’Expo: si lavora da volontari, nella speranza di percepire un reddito domani. O magari un concorso. Il lavoro, più precisamente, è accumulare visibilità agli occhi del dominus universitario. L’università si conferma al centro dei processi sociali dominanti e si inserisce nella tendenza del lavoro gratuito.
La fuga dei cervelli è il racconto dei dominanti sulla condizione dei ricercatori italiani, in particolare di quelli che legittimamente trovano una o più occasioni all’estero, si sottraggono al destino riservatogli nel loro paese e diventano professionisti internazionali della ricerca.
Il secondo è il racconto della materialità del lavoro oggi. La richiesta di estensione delle tutele di base, come il sussidio di disoccupazione, avanzato da ricercatori studenti e sindacati, squarcia un velo: anche i precari dell’università sono lavoratori e non corpo separato della società, o baronetti in miniatura che campano dei privilegi di ceto o con la rendita familiare.
Il problema della ricerca in Italia: la rimozione delle condizioni materiali del lavoro della ricerca e l’affermazione dell’unica realtà della fuga dei cervelli. La prima è il racconto, dal basso e in prima persona, di una condizione realmente vissuta e generale. La seconda è il racconto dall’alto che giustifica la realtà e non la spiega. Ed è fatta dai governi, tra gli altri.
Ecco come funziona il dispositivo discorsivo nel caso di Renzi. Ieri il presidente del Consiglio ha detto che non sarà lui a dire ai ricercatori italiani di restare in Italia. "Siamo pieni di presidenti del Consiglio che in passato hanno detto non andate" ha detto ieri l’inquilino di Palazzo Chigi all’istituto nazionale di fisica nucleare del Gran Sasso.
"Se pensate che sia meglio, fatelo. Ma noi faremo dei nostri istituti i luoghi al top del livello mondiale – ha proseguito – faremo dell’Italia un centro capace di attrarre ricercatori italiani e di tutto il mondo". E poi, come rivolgendosi a diplomati preoccupati di lasciare casa per andare all’estero, ha detto: "è giusto fare esperienza all'estero, non bisogna continuare ad avere paura del mondo senza frontiere ma far sì che i nostri istituti siano all’avanguardia".
Il messaggio ai ricercatori non è stato dei più felici: comunica nervosismo e un senso di rivalsa contro le recenti polemiche scatenate dalla volontà del ministro dell’università Giannini di appropriarsi del merito di una super-borsa dello European Research Council (Erc) da due milioni di euro vinta dalla ricercatrice italiana, la linguista Roberta D’Alessandro… in Olanda.
Erroneamente inquadrata nella retorica vittimistica della «fuga dei cervelli», lo scontro Giannini-D’Alessandro è avvenuto sulla mancanza di politiche della ricerca in Italia. La ricercatrice ha precisato di non fuggire da nulla: ha fatto un dottorato all’estero e lì continua a fare ricerca, indipendentemente dal passaporto. In Italia il problema non sono solo i concorsi pilotati o le baronie, ma l’inesistente attrattività dei ricercatori stranieri, senza contare che sui 30 vincitori italiani dell’Erc, solo 13 si fermeranno in Italia per realizzarlo. E, al termine, non è detto che tutti continueranno a lavorare nel nostro paese.
A questo si aggiungano i tagli al fondo degli atenei da un miliardo, la miseria di 92 milioni di euro destinati alla ricerca di base del Prin per tre anni o il blocco degli stipendi da cinque per capire le ragioni per cui si lascia una nave che affonda e non si vuole annegare da precari. La rimozione di questa realtà ieri ha ravvivato le critiche online della comunità accademica che intende astenersi dalla valutazione della qualità della ricerca (VqR).
Resta da capire che cosa il governo stia facendo per la ricerca, oltre ai 60 milioni promessi. Ieri Giannini ha rilanciato il "piano nazionale per la ricerca": 2,5 miliardi di fondi nazionali e dieci fino al 2020. Si direbbe, tutto bene. In realtà le cose non sono messe benissimo, come si cerca di far capire. Annunciato un anno fa, il PnR è una scommessa che punta a prendere 8,8 miliardi, il resto va conquistato con i progetti sui quali l’Italia ha dato pessima prova di sé, quindi la speranza rasenta lo zero. Questi soldi andranno alle aree Agrifood, Aerospazio, Design Creatività, Made in Italy, Chimica Verde non ricerca di base, e tanto meno umanistica.
All’università, briciole: solo un bando per 863 ricercatori, mentre dal 2008 è stato perso un quinto dei docenti di tutte le fasce e la ripartizione delle risorse residue penalizza gli atenei del Sud. Se la narrativa sulla "fuga dei cervelli" è vagamente nazionalista, questo è un modo per alimentarla, aggravando le disparità tra atenei e il loro sotto-finanziamento. Il "top" è lontano e non è per tutti.